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LA MINA INTEGRALISTA
VIAGGIO TRA I PROBLEMI E LE REALTA' DEL MONDO ISLAMICO.
I PROBLEMI DERIVATI DAL CROLLO DELL'IMPERO SOVIETICO E DALLA RINASCITA DLL'INTEGRALISMO ISLAMICO.
 
Alcuni avvenimenti di cronaca hanno riportato all'attenzione internazionale più vasta quanto sta accadendo nell'Asia centrale e, segnatamente, in due stati: il Pakistan e il confinante Afghanistan. Una sorta di provincialismo difficilmente sradicabile porta l'attenzione dei media occidentali a occuparsi di questi paesi solamente in occasione di grandi eventi, sovente legati a vicende sanguinose e violente.
 
Al contrario, quanto accade in questo quadrante asiatico è di fondamentale importanza per gli equilibri presenti e futuri di un'area vastissima che dall'Iran giunge sino ai confini con la Cina, coinvolgendo il difficile cammino delle repubbliche ex sovietiche dell'Asia, che nel tentativo di uscire dal ricatto post-sovietico rischiano fortemente una pesante ipoteca islamica nella versione più integralista e settaria.
 
In questo quadro la vicenda afghana è di palmare evidenza.
Paese invaso e soggiogato dall'Armata rossa e governato per oltre un decennio da esecutivi fantocci appoggiati sulle baionette sovietiche, ha trovato unità di intenti contro l'invasore nella comune religione musulmana, ma sta conoscendo la divisione e l'odio religioso tra sunniti e sciiti e lo scontro sanguinoso tra le fazioni più irriducibili di entrambe le confessioni.
 
Dal canto suo il Pakistan, indubbiamente e potenzialmente destinato ad esercitare il ruolo di potenza regionale e in eterno conflitto con la vicina India, sta conoscendo una difficile fase di ricostruzione morale e materiale dopo gli anni della tirannia integralista del generale Zia, ma affronta i rischi di una fondamentalizzazione di ritorno frutto delle difficoltà economiche e delle lacerazioni sociali.
 
Un tempo paese laico, poi "musulmanizzato" a tappe forzate, oggi è in bilico e alla ricerca di nuova stabilità.
Su tutto aleggia la spinta irrazionale e settaria del vicino Iran, la cui ideologia teocratica costituisce oggi più che mai, un rischio di dimensioni planetarie come dimostrano le tragedie algerina ed egiziana.
 
Un tempo, neppure tanto antico, erano terre lontane, coloniali, avvolte dal mistero e dai miti tramandati e raccontati prima dagli esploratori e poi dai commercianti di spezie, paesi dove passavano le mitiche "vie" delle merci più ricercate dal gusto e dall'ambizione dei paesi coloniali.
 
Poi hanno vissuto il lungo dominio coloniale per giungere, in questo secolo, alla lotta per l'indipendenza e la sovranità.
Una lotta faticosa, sanguinosa, con il retaggio di schiavitù concrete e virtuali, con un pesante fardello di difficoltà, problemi strutturali e l'assenza di una vera classe dirigente capace di avviare la rinascita e lo sviluppo e con laceranti divisioni etniche e sociali frutto delle logiche di governo coloniale.
 
Oggi questi paesi, il Pakistan, l'India, l'Afghanistan, le ex repubbliche sovietiche dell'Asia centrale, sono carichi di potenzialità ma appesantiti da contraddizioni stridenti dove non servono tanto le regole internazionali, quanto un'adeguata ricostruzione del sistema interno.
 
Un'utopia certo, in un pianeta dove le logiche sono sempre più interconnesse e dove chi non riesce a correre rischia l'isolamento.
In questo scenario si inseriscono poi le spinte radicali di maggioranze o minoranze religiose la cui ottica è tanto più riduttiva e settaria quanto più avvolgente è il loro messaggio nella vita di tutti i giorni.
Un'ipoteca e un rischio che il contatto con il sistema economico e produttivo internazionale (non più solo occidentale ma globale) sembra aver attivato con insospettata virulenza e che, tramontate le ideologie politiche e i massimalismi della cultura occidentale, si presentano come il più grosso pericolo per la stabilità mondiale e per la democratizzazione della convivenza sul globo.
 
Tra questi paesi, la cronaca delle ultime settimane ci ha portato dinanzi l'Afghanistan e il confinante Pakistan.
Due realtà diverse non solo per ragioni geografiche ed etniche, ma legate da un filo apparentemente invisibile che risale al dominio britannico nonché da robuste vicende di ieri e di oggi legate a quelle guerre di "confine" che caratterizzavano la logica bipolare e nelle quali si esercitava la reciproca deterrenza delle grandi potenze del dopoguerra.
 
L'invasione sovietica dell'Afghanistan, la sporca guerra avviata da un regime dai giorni contati, la dimostrazione più evidente del fallimento dell'ideologia comunista applicata e della sua natura illiberale e militarista, hanno cambiato molti elementi dello scenario regionale, innescando micce a lenta combustione con le quali il mondo dovrà fare i conti in un futuro non lontano, quasi dinanzi ai nostri occhi, e che la caduta dei muri della quale l'invasione fu quasi un elemento scatenante, ha dato forza e ossigeno.
 
Qualcuno potrebbe al solito osservare, come accade in questi casi, che queste spinte trovavano nel bipolarismo e nel duopolio mondiale una camera di compensazione.
 
Ma è una lettura miope che non tiene conto di un elemento fondamentale: il diritto alla libertà e all'autodeterminazione dei popoli e il piano di eguaglianza sul quale devono esercitarsi i rapporti tra nazioni, stati sovrani.
 
Le spinte di cui parliamo, dunque, essendo parte del fluire della storia non possono essere sottovalutate, anche per trovare i giusti rimedi.
 
Siamo partiti dall'Afghanistan, dunque, per la particolare storia che questo stato ha avuto negli ultimi decenni e per lo sconquasso etnico, sociale e politico nel quale è sprofondato.
 
Uniti strumentalmente, in nome della libertà e della comune religione musulmana, i montanari afghani, le tribù fiere e irriducibili che mai nessun esercito né imperiale britannico né imperiale sovietico hanno potuto sconfiggere, sembrano aver ora perso la battaglia della pace, dopo aver combattuto con generosità strenua e vincendo quello che veniva considerato il più potente esercito del mondo: l'Armata rossa.
 
Per capire la ragione di questa singolare evoluzione, occorre cercare di comprendere il paese per quanto ci è consentito e per gli elementi, non sempre adeguati, dei quali si può disporre.
 
Sotto il dominio britannico l'Afghanistan aveva conservato il suo sistema etnico e sociale basato sui clan e sulla virtuale divisione del territorio tra le diverse tribù.
Un equilibrio instabile, sempre in forse, ma capace di contemperare egoismi e appetiti di questo o quel capo con la deterrenza delle armi degli altri.
Un sistema primitivo certo, ma non meno differente nei risultati concreti di quello che ha caratterizzato la guerra fredda a livello globale.
La fine del dominio britannico, la forte spinta all'indipendenza dei paesi sotto il suo governo, ha dato vita a stati sovrani spezzando un equilibrio altrettanto artificiale e lasciando sul terreno nodi irrisolti e conflitti che si trascinano ancora e che costituiscono i punti di forza delle nuove lotte basate sull'integralismo islamico e sulla sua battaglia contro i governi laici considerati eredi dei dominatori coloniali.
 
L'Afghanistan, in questo contesto, ha vissuto un lungo periodo di relativa stabilità nel dopoguerra sotto una monarchia lasciata dagli inglesi, ma capace di mantenere la pace pur se armata tra le diverse fazioni.
 
Questo equilibrio dinamico si è rotto con l'esplosione della rivolta islamica in Iran. Spinta dietro le quinte dai sovietici per spiazzare in Medio Oriente gli Usa alla fine degli anni Settanta, la ribellione integralista degli ayatollah ha rotto gli argini incautamente considerati sufficienti da Mosca, divenendo un'ipoteca non più per il solo odiato satana americano, ma per gli stessi equilibri regionali asiatici dove la vecchia Urss aveva precisi interessi strategici.
 
Pensando, cioè, di togliere di torno gli Stati Uniti nel gioco di vero e proprio dominio mondiale che caratterizzò la guerra fredda e poi la coesistenza pacifica, la dirigenza comunista sovietica accese la miccia dell'incendio fondamentalista accelerando la coesione religiosa di un Islam sino ad allora sonnacchioso e pago dell'economia dei petrodollari, strumento di deterrenza nei confronti del mondo occidentale tanto odiato e vituperato come origine di tutti i mali.
 
La decisione dissennata di invadere l'Afghanistan, mettendone in fuga il legittimo governo e impiantando un regime fantoccio estraneo nelle forme e nelle logiche al paese, fu proprio il frutto della drammatica consapevolezza di aver creato le premesse per un'esplosione di violenza che non avrebbe risparmiato nessuno e certamente neppure le repubbliche asiatiche dell'Unione.
 
Come spesso avviene, quando si minimizzano i rischi e si sbagliano le valutazioni prospettiche, il rimedio è stato assai peggiore del male e ha dato la prima e forse più potente picconata alla credibilità dell'Urss.
Un colpo dal quale il Cremlino non si è più ripreso.
Ma soprattutto ha fatto sì che le tribù afghane, i clan del paese, ridisegnassero la mappa del loro potere anche sulla base dell'appartenenza religiosa.
 
Ma c'è di più. Il risveglio islamico sciita ha prodotto un analogo risveglio nella dirigenza sunnita. Quest'ultima, avvertendo con estrema chiarezza il rischio insito nel settarismo eretico sciita. Dunque Islam in risveglio e rivalità interislamica.
 
Lotta non più teorica, fìlosofica, da università coraniche, ma pratica, di potere reale nelle società attratte dalle idee di Maometto e soprattutto dalle letture più recenti nei modi e più retrive nella sostanza che di esse hanno fatto soprattutto gli ayatollah di Teheran.
 
Così l'Afghanistan è divenuto inesorabilmente un terreno di lotta tra sunniti e sciiti. Battuti i sovietici, i leader hanno dato vita a una parvenza di stato per poi gettarsi a capofitto in una lotta dai contorni confessionali.
 
Ma per Kabul non è soltanto questo: i clan del paese sono infatti multietnici e oltre ad afghani vi sono anche tagiki, uzbeki e altre minoranze.
Così, quasi senza accorgersene, sono proprio le terre musulmane dell'ex Urss ad essere finite nel vortice e nei rischi di questo rinascere dell'integralismo.
 
Due le conseguenze di questi fatti: da un lato il prevalere antistorico in questi nuovi fragili stati di fazioni comuniste quasi a controbilanciare la crescente spinta islamica; dall'altro gli avvenimenti più recenti che vedono gli studenti islamici, i taleban, di osservanza maggioritaria sannita, prendere le armi e attaccare tutte le fazioni sino a giungere a Kabul contornati dal rispetto e dall'ammirazione di un popolo affranto dalle lotte e dagli egoismi di parte.
 
Se sarà un fuoco di paglia, saranno gli avvenimenti futuri a dirlo.
Fatto sta che i taleban, ortodossi e non inclini a compromessi, sembrano spinti da una volontà che trascende i clan e le loro divisioni e puntano alla ricostruzione di uno stato sovrano dove l'Islam sia regola e base della vita, pur nella sua versione più moderata.
Un giudizio, questo, che gli avvenimenti algerini ed egiziani, peraltro, cominciano a porre in discussione.
 
Ma, come abbiamo detto, si è creata una singolare situazione.
A nord-est dell'Iran sciita e a sud dei paesi musulmani dell'Asia centrale potrebbe nascere un'entità statale caratterizzata dall'Islam, ma in antitesi a Teheran, un ulteriore e complesso dato che va a inserirsi in un mosaico in ebollizione e le cui evoluzioni future restano misteriose. In tutti i punti meno uno, però, che ci porta sull'altro paese verso il quale stiamo volgendo la nostra attenzione: il Pakistan.
Non è un mistero per nessuno, infatti, che molta parte della forza militare e dell'organizzazione dei taleban deriva dal massiccio aiuto che ad essi viene fornito da gruppi dì potere economico e politico di questo paese.
Nato dalla dissoluzione di quell'Unione indiana che fu uno dei più grandi dominion della Gran Bretagna, tanto da divenire viceregno della corona di sua maestà, il Pakistan, dopo la rovinosa e sanguinosa perdita della sua parte orientale, l'attuale Bangladesh, che ne faceva uno stato pluriterritoriale, ha assunto una forte connotazione regionale ma con ambizioni di teatro in tutto lo scacchiere centro-asiatico e in perenne conflitto con la vicina federazione indiana nella quale vivono centinaia di milioni di musulmani.
 
Non stupisce dunque il ruolo che Islamabad si trova sempre più ad esercitare il perno di una deterrenza islamica sunnita nei confronti del pericolo sciita rappresentato da Teheran e di potenziale difensore della minoranza musulmana in India.
 
Ciò significa un ruolo centrale per il paese che sostiene anche i disegni di grande potenza nucleare che da sempre in conflitto con l'India (un tempo sostenuta dall'Urss) questo paese (a suo tempo sostenuto dalla Cina) ha coltivato e coltiva.
Una complessa metamorfosi quella subita da questo paese.
 
Così, anche nel laico Pakistan, la lotta per il potere diviene anche lotta religiosa per far trionfare l'Islam nella versione più consona a chi tenta di conquistare il potere.
 
Una battaglia senza quartiere e senza esclusione di colpi nella quale a perdere potrebbe ancora una volta essere il popolo pakistano.
 
I numerosi episodi, legati allo scontro tra cristiani (piccola minoranza nel paese) e gli integralisti che hanno fatto scoppiare un caso internazionale con il piccolo quattordicenne analfabeta accusato di aver scritto frasi blasfeme sui muri di una moschea insieme a due amici, frasi che nessuno degli accusatori ha mai visto, mostrano con tutta evidenza i pericoli.
Pericoli che sanno di settarismo e di intolleranza.
Oggi hanno colpito una minoranza del paese, i cristiani, con metodi e sistemi settari, domani potrebbero divenire reali anche per chi, nella maggioranza della popolazione, non intende piegarsi alla logica pani-islamica ma reclama libertà e moderazione.
Una cosa è certa.
L'integralismo chiama integralismo e questo virus sembra contagiare gravemente anche i sunniti.
Con rischi giganteschi per l'equilibrio mondiale.

Domenica 21 Settembre 2008
Gabriella Pasquali Carlizzi

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