PIU’ VEROSIMILE PENSARE CHE SIA STATO “SUICIDATO”…
ESATTAMENTE COME SI ERA IPOTIZZATO GIA’ NEL 1995 QUANDO L’INCHIESTA COORDINATA DALL’ALLORA PROCURATORE AGGIUNTO ITALO ORMANNI E DAL SOSTITUTO SETTEMBRINO NEBBIOSO IMBOCCO’ LA DIREZIONE GIUSTA, DIREZIONE DI CUI INCOMPRENSIBILMENTE SI PERSERO LE TRACCE.
CHE FINE HANNO FATTO I RISULTAI DELLE INDAGINI CUI APPRODARONO, BENCHE’ ASSAI INQUIETANTI, I DUE MAGISTRATI? ANCHE ALL’EPOCA SI DISSE CHE SE CI FOSSE STATO UN PROCESSO, VANACORE NON LO AVREBBERO FATTO ARRIVARE VIVO! E LA MORTE DELL’EX PORTIERE NON E’ L’UNICA IN QUESTO SCENARIO DI SANGUE AD ESIGERE CHIAREZZA.
NELL’AGOSTO DEL 2006, QUANDO ORMAI SI DAVA PER CERTO CHE UN PROCESSO CI SAREBBE STATO, SEPPURE A CARICO DI UN IMPUTATO CHE MOLTI, NOI COMPRESI, CREDONO INNOCENTE, MORI’ MISTERIOSAMENTE ALDO CONCHIONE. COSTUI, GIA’ FUNZIONARIO DEI SERVIZI SEGRETI, SOTTO LA COPERTURA DI GIORNALISTA ED EDITORE, PUBBLICO’ IL LIBRO “IO, VIA POMA E…. SIMONETTA” IL CUI AUTORE, SALVATORE VOLPONI FU IL DATORE DI LAVORO DELLA VITTIMA.
OGGI CONCHIONE SAREBBE STATO UN TESTIMONE CHIAVE… FORSE QUALCOSA DI PIU’ POTREBBE EMERGERE DALLA EVENTUALE RIESUMAZIONE DEL SUO CADAVERE…
Per coloro che sono stati a vario titolo parte di questa inchiesta è difficile credere che Pietrino Vanacore si sia suicidato.
Basti pensare che non era stupido, tutt’altro, e ben sapeva che un gesto estremo avrebbe complicato ancora di più la vita ai suoi familiari, a suo figlio, destando nuovi ed inquietanti sospetti, proprio ciò che cercava di evitare e di cui si lamentava.
Resta il fatto che la figura di Vanacore ed eventuali ruoli nella vicenda esigono ora più che mai assoluta chiarezza, anche se chi scrive è ben consapevole che l’impianto accusatorio a carico di Raniero Busco si indebolirà per far posto ad una verità che si è cercato di ostacolare per vent’anni.
E’ pur vero che i tempi sono cambiati e ciò che negli anni novanta poteva apparire destabilizzante delle Istituzioni, oggi si inserirebbe in un quadro politico ove assistiamo a continui e legittimati comportamenti destabilizzanti anche ad opera di chi dovrebbe garantire ai cittadini ben altro.
Non vi è giorno in cui manchino vergognosi attacchi alla Magistratura, minacciata da ogni pulpito pubblico, al contrario di metodi diversi che si adottarono nel caso del delitto di via Poma, al solo fine di vanificare anni di indagini a dir poco “scottanti” che con onestà e coraggio Ormanni e Settembrino Nebbioso avevano portato avanti fino a quando….
Già, anche loro sembra trovarono un ostacolo più grande di un macigno.
Esattamente come accade in questi giorni per alcune inchieste giudiziarie in corso, girò voce che la magistratura nell’intercettare un personaggio sospettato di aver depistato le indagini, incappò in una conversazione telefonica tra questo personaggio e un “intoccabile istituzionale”, proprio mentre discutevano sulle conseguenze che sarebbero scaturite a seguito della perquisizione disposta dagli inquirenti presso la Bnl di Piazza Fiume ove furono finalmente trovate alcune cassette di sicurezza…
Che fare?
Procedere a carico del personaggio sospettato a quel punto significava chiamare in causa chi, per la carica che all’epoca ricopriva, poteva veramente destabilizzare nei cittadini il rispetto e la fiducia verso le Istituzioni.
E poi spesso i Pubblici Ministeri non sono assecondati dai loro superiori.
Le indagini a quel punto si arenarono, ma qualcuno onde seppellire definitivamente l’inchiesta pensò bene di affidare ad Ormanni un caso altrettanto risonante come l’uccisione della studentessa Marta Russo, provvedendo anche ad una “trappola” capace al momento giusto di screditare la Pubblica Accusa.
E chi non ricorda di quel processo, ciò che provocò la scoperta del famoso video-shock della teste Gabriella Alletto?
E come sistemare il Sostituto Settembrino Nebbioso?
Un Magistrato che era stato capace di arrivare al bandolo della matassa del “giallo di via Poma”, meritava ben altra carica….
Ed eccolo promosso fino a Capo di Gabinetto del Ministero della Giustizia.
La sottoscritta, fu ascoltata più volte a verbale da Settembrino Nebbioso, in quanto il destino volle che io il 7 agosto del 1990 mi trovassi proprio lì sotto, proprio negli orari ipotizzati del delitto, anche un po’ prima e anche un po’ dopo, mentre aspettavo mio marito che era in una riunione di lavoro presso uno studio sito in una delle palazzine di quello stabile.
E posso anche affermare che tutto quanto fu oggetto delle mie deposizioni fu riscontrato come vero, tanto che nell’ambito dell’inchiesta su via Poma non subii alcun provvedimento giudiziario.
Anzi, insieme al mio collega giornalista investigativo Gabriele Ratini, altro testimone che andrebbe ascoltato, recuperammo molte informazioni e materiale definito utilissimo da quei magistrati, materiale che ci consentì di risalire ai rapporti di stretta amicizia tra l’AIG, per cui lavorava Simonetta Cesaroni e l’allora Capo della Polizia Vincenzo Parisi.
Il tutto con tanto di fotografie.
Il particolare non era di poco conto, in quanto tale rapporto era stato incomprensibilmente e reiteratamente negato al PM da parte anche di addetti ai lavori, quando interrogati, il Magistrato voleva capire se vi fosse qualche ombra riconducibile ai Servizi Segreti.
Non crediamo sia un caso che la vera sede dell’AIG si trovasse a via Cavour 44, stabile in uso ai Servizi e dove abitava anche Parisi.
Chi dunque, e per quale tipo di lavoro, chiese in “prestito” per un breve periodo Simonetta Cesaroni, nell’ufficio di via Poma 2?
Un indirizzo mantenuto riservatissimo dalla stessa Simonetta, dato che risulta che nessuno dei familiari sapesse dove la ragazza svolgesse questo incarico extra, e a suo dire, nemmeno il datore di lavoro Volponi ne era a conoscenza dato che per sapere il nome dell’Associazione (AIG) e il relativo indirizzo dovette telefonare al suo socio in Calabria, tale Bizzocchi.
E non si dica che stando a quanto la famiglia afferma delle abitudini di Simonetta, era da considerarsi normale che la stessa non avesse detto a nessuno l’indirizzo del nuovo ufficio, visto che con Volponi lavorava in via Maggi e tutti ne erano a conoscenza.
E dunque è legittimo pensare che chi aveva chiesto in “prestito” Simonetta per il lavoro al computer fosse riconducibile a qualche Servizio Segreto, così come “riservato” doveva rimanere il luogo e il lavoro stesso chiuso in quel computer.
Ma c’è di più.
Perché la famiglia si allarmò subito e tutti si comportarono in modo improprio e in aperta violazione delle norme previste in casi di timore di qualche disgrazia?
In fondo la ragazza era maggiorenne e seppure i parenti o il datore di lavoro avessero pensato di presentare denuncia di scomparsa, dovevano attendere le 24 ore di rito.
E non solo.
Ma quando con Volponi trovarono finalmente l’indirizzo di via Poma 2, tutti loro, da perfetti estranei, seppure legittimati a nutrire qualsivoglia paura, magari Simonetta poteva aver avuto un malore in ufficio, dovevano chiamare i Vigili del Fuoco, o la Polizia, o i Carabinieri, ma mai commettere ciò che potrebbe ancor oggi apparire una violazione di domicilio….
Si evitò consapevolmente che lo Stato scoprisse quel luogo, e chi vi lavorava, finchè di fronte ad un cadavere furono tutti obbligati a chiamare chi di dovere.
Non risulta che nessuna delle persone che intervennero sul luogo del delitto prima della Polizia, fossero individui stupidi, o privi della conoscenza delle più elementari regole di comportamento, e questo punto dovrebbe far riflettere tutti, magistrati compresi.
Si parla delle incomprensibili resistenze da parte della moglie del portiere, ma non si parla delle inadeguate pretese da parte di estranei, nessuno dei quali titolato a mettere piede in quell’ufficio.
E chi ci dice quante e quali prove inconsapevolmente furono inquinate e vanificate in quel via vai, tra la disperazione, lo sconcerto, e tutto ciò che umanamente si manifesta di fronte ad una tragedia del genere?
E’ anche vero che ciò in Italia capita spesso e determina poi danni alle indagini fino a poter contare moltissimi delitti insoluti.
E’ tuttavia necessario distinguere.
Se la scena del delitto viene inquinata casualmente, nel senso che uno si trova davanti un morto ammazzato e magari vi si avvicina per sentire se respira e calpesta un’impronta, questo tipo di incidente non è imputabile a nessuno .
Se invece, chi teme il peggio per una persona cara, pretende di scavalcare cancelli, obbligare chi non dovrebbe ad aprire la porta di un domicilio privato, costui si rende responsabile insieme a chi impropriamente cede alle insistenze di una serie di circostanze che risulteranno il primo danno alle indagini.
Ora, nel caso di Simonetta Cesaroni, relativamente alla sera del 7 agosto del 1990 abbiamo da un lato una portiera che detiene le chiavi dell’ufficio non si sa bene a che titolo dato che queste chiavi, sembra dovessero stare all’interno dell’appartamento come riserva.
Dall’altro lato, ci sono la sorella di Simonetta con il fidanzato, il datore di lavoro Volponi con il figlio, tutte persone a cui la ragazza non aveva dato l’indirizzo dell’ufficio, che pretendono di entrare ed effettivamente entrano.
Qualcuno avrà pure chiesto a questi signori, come mai non chiamarono la Polizia?
E gli Inquirenti se lo saranno chiesto?
O facciamo passare un nodo così importante come “agitazione del momento” o altre sbadataggini?
La portiera perché cedette alle insistenze dei quattro?
Forse la minacciarono?
E se non la minacciarono perché lei stessa non li invitò a chiamare la polizia?
Sapeva già cosa era accaduto?
Bene, io come ebbi a verbalizzare più volte, prima con l’allora funzionario di Polizia Nicola Calipari, poi con il Pm Settembrino Nebbioso, ricordo perfettamente di aver sentito una lite tra un uomo la cui voce mi rimase impressa, e una donna.
L’uomo chiedeva con insistenza un qualcosa che la donna non voleva dargli, sostenendo che rischiava di perdere il posto di lavoro, dunque un qualcosa che riguardava il suo lavoro.
Ricordo che la lite cessò improvvisamente, ma non sentii alcun grido di aiuto, come di chi sta per essere uccisa da qualcuno armato.
E ricordo anche i tre uomini che vidi entrare nello stabile poco dopo, vestiti di tutto punto, che cercavano il portiere per ritirare presso di lui qualcosa.
Descrissi in particolare uno dei tre uomini, e Calipari mi disse di tenermi pronta per fare un identikit.
Ma nessuno mi chiamò.
Qualche tempo dopo riconobbi questo uomo in una immagine di repertorio mandata in un Tg, solo in quel momento seppi chi era. Inviai una raccomandata con ricevuta di ritorno alla Procura di Roma, dicendo che avevo riconosciuto uno dei tre uomini che vidi entrare in via Poma il 7 agosto del 1990 e che volevo formalizzare.
Nessuno mi chiamò.
Nel 2004 fui però contattata proprio da Aldo Conchione, editore del libro di Volponi.
Costui mi disse molte cose, e ci frequentammo per un paio d’anni.
Un giorno venne a trovarmi a casa e quando si congedò, così si espresse: “Se mi hanno seguito, questa è l’ultima volta che ci siamo incontrati…. Faranno fuori anche me…”.
Era il mese di luglio del 2006. Conchione fu trovato morto nell’agosto dello stesso anno.
Molti mi chiedono che idea io mi sia fatta di questo delitto, e molti giudicheranno la mia idea come fantasiosa, inverosimile.
Tuttavia, poiché sto morendo a causa di un cancro, rispondo ugualmente senza timore dei giudizi altrui.
Penso che Simonetta Cesaroni in via Poma stesse svolgendo al computer un lavoro di “Affari Riservati” e che la relativa documentazione dovesse interessare apparati deviati dei Servizi, per finalità altrettanto deviate.
Nella ipotesi che la lite che io sentii corrispondesse veramente ad una lite tra Simonetta ed un signor X, penso che il delitto passionale sia stato simulato a seguito o di un improvviso colpo dietro la testa, o di una caduta accidentale della ragazza che ne causò la morte.
Ricordo una perizia del primo medico legale che affermava che la ragazza morì per un colpo alla testa ed emorragia interna.
E’ dunque possibile che durante la lite assai accesa, la ragazza abbia inciampato e sia caduta e morta sul colpo. Come pure, sia stata aggredita con un colpo mortale. Questo spiegherebbe il perché io non sentii alcun grido di aiuto.
Ed è anche possibile che l’uomo, non sapendo come giustificare l’accaduto ai “suoi interlocutori” cui avrebbe dovuto consegnare chissà quale “materiale riservato”, e temendo di soccombere egli stesso, abbia simulato con 29 coltellate post-mortem un delitto passionale.
Avrebbe detto infatti che recatosi nell’ufficio per farsi consegnare il materiale aveva trovato la ragazza massacrata.
E per dimostrare l’accaduto, l’uomo aveva provveduto addirittura a chiudere la porta con quattro mandate, aspettando magari chissà quali disposizioni e da chissà quali autorevoli e ignoti signori….
Cissà, magari gli stessi che prima della sua deposizione al processo lo hanno “suicidato”.
Certo è che quanto si è verificato in questa indagine nel corso di venti anni lascia intendere che l’assassino da “coprire” non era certo un giovane ex fidanzato, ragazzo semplice, lavoratore, e soprattutto un presunto assassino, come tale assai comodo a tutti.
Chi mai si sarebbe esposto ad essere incriminato per tanti reati, la falsa testimonianza, il depistaggio, movimenti di denaro con pacchi di banconote ritrovate, il tutto per coprire Raniero Busco?
Personalmente non ci credo, e la morte di Vanacore rafforza le mie convinzioni.
Tuttavia mi chiedo come mai nessuna delle parti in causa esige la mia testimonianza al processo?
Una ipotesi di risposta potrebbe essere quella di una collettiva tacita intesa, nel non sfiorare in questo caso giudiziario nulla che possa risultare scomodo.
Nell’interesse di tutti… anche dell’imputato. (?)…
Trovare un colpevole? Si, purchè sia un uomo qualunque….
Il Mostro di Firenze ce lo insegna….
Didascalia fotografie (dall'alto)
1. Pietrino Vanacore;
2. Simonetta Cesaroni;
3. Raniero Brusco;
4. Settembrino Nebbioso;
5. Scorcio di via Carlo Poma.
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