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Sabato 23 maggio 2020

IL VOLO DEL FALCO

di Gabriella Pasquali Carlizzi

Sono passati 28 anni da quel 23 maggio del 1992 in cui a Capaci Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti di scorta restarono uccisi nell’attentato che ancora oggi annichilisce per la sua violenta efferatezza. Anche quest’anno non possiamo dimenticare, assieme a questi eroi sacrificati ad uno Stato che non vuol sapere, che Gabriella pochi giorni prima si era recata al Viminale ad incontrare il Capo della Polizia Vincenzo Parisi per dichiarare a lui che era in corso di attuazione un terribile attentato. Ricordo bene quel giorno mentre aspettavo che Gabriella terminasse le sue dichiarazioni, e di come lei, accompagnata dal Vicecapo della Polizia Fernando Masone e ben compresa di quanto aveva appena detto, mi raggiunse nella sala dove mi trovavo in attesa, per ritornare assieme verso casa. Nulla venne approfondito nei giorni seguenti dalle autorità di Polizia con Gabriella a seguito delle sue terribili dichiarazioni. Eppure un mese dopo Gabriella si farà lei risentire da Parisi, per un altro terribile annuncio, che questa volta avrebbe riguardato il collega di Falcone, Paolo Borsellino. Eppure anche quest’altro annuncio, purtroppo, verrà confermato dai fatti. Nulla. Anche questa volta nulla verrà chiesto a Gabriella di spiegare. Eppure lei era una persona credibile, altrimenti dove si è visto mai che una semplice cittadina chiede e riesce a farsi ricevere dal Capo della Polizia! Evidentemente il sacrificio si doveva comunque compiere! E non c’era Gabriella che potesse evitarlo! Ed ecco quanto ho voluto ora qui riportare dal piccolo volume “Il volo del Falco” che Gabriella dedicò a questa strage.

Da quando il suo volo si orientava ormai come meta consueta intorno a quelle alture così dense di imprevisti, era convinto che le prede più rare e ambite le avrebbe catturate lui, con la sua perspicacia, pronto a tenere le ali spiegate per un tempo incondizionato, con il suo stile da conquistatore e profondo conoscitore delle tane più nascoste, delle mimetizzazioni più sofisticate, ma tutte ben riconoscibili da quell’istinto innato del rapace che fa di lui il FALCONE. Appoggiò la testa sulle spalle di sua moglie, ora pensava ad essere solo Giovanni, un uomo normale, come tanti, voleva inebriarsi di tutto, aveva bisogno di rigenerarsi nel corpo e nello spirito prima di affrontare la settimana decisiva. Infatti, i primi segnali del terremoto politico erano già comparsi, ora era in grado di trasmettere al collega la chiave di tutto, poi sarebbe stata chiara la storia del paese, almeno dagli ultimi venti anni. Era soddisfatto e convinto ancora una volta che spesso il buon esito di un lavoro di equipe si basa proprio sulla fedeltà tra i componenti. Decise mentalmente di guidare lui fino a casa, era un segno di autonomia che lo avrebbe scaricato anche dalle tensioni precedenti; ormai nella sua fantasia c’erano già delle ore bellissime da trascorrere accanto a tutto ciò che amava tanto.

Sabato 23.05.1992 “Su una pista atterra un aereo dei servizi segreti provenienti da Roma. Sopra c’è Giovanni Falcone con sua moglie Francesca. Sono le 17.48 quando il jet è sulla pista di Punta Raisi. E sulla pista ci sono come ogni sabato pomeriggio le tre auto che lo aspettano. Una croma marrone, una croma bianca, una croma azzurra. E’ la sua scorta, la solita scorta con Antonio Montinaro, agente scelto della Squadra Mobile che appena vede il “suo” giudice che scende dalla scaletta si infila la mano destra sotto il giubbotto per controllare la bifilare 7,65. Tutto è a posto, non c’è bisogno di sirene, alle 17.50 il corteo blindato che trasporta il direttore generale degli Affari penali del Ministero di Grazia e Giustizia è sull’autostrada che va verso Palermo.Tutto sembra tranquillo, ma così non è. Qualcuno sa che Falcone è appena sbarcato a Palermo, qualcuno lo segue, qualcuno sa che fra otto minuti la croma passerà sopra quel pezzo di autostrada vicino alle cementerie. La croma marrone è davanti, 130 all’ora. Guida Vito Schifani, accanto c’è Antonio Montinaro, dietro Rocco Dicillo. E corre, la croma marrone corre seguita da altre due croma, quella bianca e quella azzurra. Sulla prima c’è il giudice che guida, accanto c’è Francesca Morvillo, sua moglie, anche lei magistrato. Dietro un altro agente di scorta. E altri quattro sulla croma azzurra. Un minuto, due minuti, la campagna siciliana, l’autostrada, l’aeroporto che si allontana, quattro minuti, cinque minuti, il DC9 dell’Alitalia proveniente da Roma che scende verso il mare sorvola la A29. Sono le 17,57, Palermo è vicina, solo sette chilometri, solo pochi minuti. Lo svincolo per Capaci è lì, c’è un po' di vento, ondeggia il cartellone della “SIA Mangimi”, si muovono gli alberi, il mare è increspato. Ecco sono quasi le 17,58. La croma marrone è sempre avanti, il contatto radio con la croma bianca c’è, la “linea” è silenziosa, vuol dire che tutto va bene, non c’è problema. Ma dietro, intorno da qualche parte, c’è l’assassino, ci sono gli assassini che aspettano Giovanni Falcone. Sono le 17,58. C’è una curva larga, c’è un rettilineo di 180 metri, c’è una piccola curva. E c’è un sottopassaggio prima di arrivare ad una specie di colonna grigia con su scritto “Cementerie Siciliane”. Il cartello indica che l’uscita per Isola delle Femmine è a qualche metro, più avanti ci sono due gallerie. Sempre buie, sempre mal illuminate. Sono le 17,58 e Salvatore Gambino, coltivatore diretto di 34 anni, passeggia su un ponticello e guarda le auto che sfrecciano sull’autostrada. Sono le 17,58 e una Fiat Uno con una coppia di austriaci va verso Trapani seguita da un’Opel Corsa di colore rosso. Sono le 17,58 quando la Mafia compie la sua vendetta. “Ho visto una fiammata e poi ho sentito un boato…, forse prima ho sentito il boato e poi visto la fiammata”, racconterà un’ora dopo confuso il coltivatore Salvatore Gambino a un carabiniere. 17,58, l’ora del massacro, l’ora dell’infamia, dell’orrore, della morte. Il lampo, il tuono, la strada si apre per 50 metri verso Palermo e per 50 verso Trapani. Gli oleandri che dividono le due carreggiate dell’autostrada A29 bruciano, l’aria è irrespirabile, quintali di asfalto vengono catapultati verso il cielo. E’ l’esplosione, sono i mille chili di tritolo che brillano, che fanno strage, che fanno morte. I mafiosi li avevano piazzati in una specie di fossa a un metro dal sottopassaggio che taglia l’autostrada. Hanno aspettato Falcone, hanno aspettato l’attimo per fare clic e uccidere il “grande nemico”. Solo 30 secondi, solo 30 secondi, dal lampo e dal tuono alla strage e alla morte. Quando il tritolo esplode sulla strada si apre una buca, una diga, una fossa di una cinquantina di metri. “Come il cratere di un vulcano” dirà poi il procuratore di Palermo Piero Giammanco. Dentro il cratere del vulcano finisce in un istante la croma marrone. Solo per un attimo. Poi verrà scaraventata lontano, un volo di 50, 60, 80, 100 metri. Un volo dall’altra parte dell’autostrada, verso il mare, in un campo di ulivi. Muore Antonio, muore Vito, muore Rocco. Muoiono tutti poveri ragazzi. Un secondo dopo la croma bianca guidata da Falcone piomba nel cratere, si infossa, si alza, si riabbassa. I primi tre metri di croma vengono trinciati dal tritolo, l’altro metro e mezzo di automobile si accartoccia. I pezzi dell’asfalto schizzano per aria, volano verso il mare e verso la montagna. Giovanni Falcone viene schiacciato dall’urto del tritolo e dall’auto impazzita. Francesca finisce sui vetri in frantumi, l’autista dietro si chiama Giuseppe Costanza. E’ in trappola, prigioniero fra le lamiere ma vivo. La croma marrone è sul campo di ulivi, ma la croma di Falcone resta ferma, bloccata, in mezzo alle macerie, in mezzo al fuoco. Tre secondi dopo la croma bianca del giudice Falcone sarà ricoperta di terra e di cemento, di fuliggine e di catrame. “Io ero sul cavalcavia e mi sono messo a correre come un matto, correvo con il cuore in gola…dopo qualche minuto, forse tre, forse quattro, ho estratto dalla croma bianca il corpo di una donna…poi ho provato a tirare fuori anche il corpo di un uomo, ho saputo poi che era Falcone” ricorda fra le lacrime il coltivatore diretto Salvatore Gambino. Il corpo di Francesca Morvillo, il corpo del giudice Falcone. L’autista non lo aveva visto; era sotto i sedili, era sotto le macerie. Ore 17,59, l’autostrada Trapani - Palermo km 5,6. Una croma non c’è più, un’altra è disintegrata, la terza, quella azzurra, è un ammasso di ferri vecchi, ma dentro i quattro agenti sono vivi, feriti ma vivi. Feriti come altre venti persone che erano dentro le auto che passavano in quel momento fra lo svincolo di Capaci e le Isole delle Femmine, fra e due gallerie e la cementerai, fra il sottopassaggio e la curva larga dove c’era una volta il cartellone “Sia Mangimi”. Dove c’erano i lampioni gialli e celesti che adesso sembrano canne nere, dove c’era una strada che adesso sembra un canale dove è passata la lava vomitando da un vulcano. Con decine di automobili piegate. Con tutte le linee telefoniche saltate, con l’energia elettrica che se ne va improvvisamente, con i vetri delle ville e dei palazzi nel raggio di chilometri che vanno in frantumi, una grande nuvola nera che avvolge tutto e tutti. L’inferno per uccidere il giudice Falcone, l’inferno, l’allarme, la centrale operativa della polizia che va in tilt e i funzionari della questura che parlano via radio della “nota personalità” che stava passando alle 17,58 sull’autostrada che da Punta Raisi porta a Palermo. Chi è questa “nota personalità”? Giallo per sette minuti, giallo e paura. Poi finalmente si capisce, poi finalmente la nota personalità ha un nome e cognome, è Giovanni Falcone, è il giudice, è il direttore degli affari penali del Ministero di Grazia e Giustizia. E comincia la sarabanda di voci. E comincia l’altalena delle emozioni, dei tuffi al cuore, i timori che si intrecciano. E’ leggermente ferito, è gravemente ferito, è in fin di vita, è salvo, è quasi morto, è salvo, è lui, non è lui. Quanta paura quanta speranza quante lacrime alle 18,47. Sì alle 18,47 un medico dell’ospedale civico firma il “cartellino d’entrata” del giudice più famoso del mondo. Due parole, solo due parole: “arresto cardiaco”. Giovanni Falcone è arrivato morto in ospedale, è arrivato già morto. E sull’ambulanza che lo trasportava c’è la sua borsa di pelle marrone, piena di carte, piena di fogli. C’era anche un libro “Il ruolo del Pubblico Ministero”. Su un’altra ambulanza, Francesca, la moglie, giudice di Tribunale, magistrato come il marito, magistrato come il fratello, sostituto procuratore del pool antimafia di Palermo. “Ha le gambe rotte” dirà la stessa voce alle otto della sera, un infermiere del Civico. “Ha il ventre aperto” racconta un chirurgo alle dieci di sera. E’ in coma, no si salva, è in fin di vita, è fuori pericolo. “Povera Francesca è morta con il suo amore”. Sempre da La Repubblica, domenica 24-5-1992 “La Repubblica Italiana a Palermo è morta. E’ morta in un giorno appiccicoso nello spettrale androne di marmo del palazzo di Giustizia seppellita dagli sputi, dagli insulti, dalla pioggia di monetine, dal grido di “Assassini”, dal coro di “Mafiosi”, che come un selvaggio scirocco, ha investito tutti coloro che piccoli o grandi, complici o innocenti (ma esistono innocenti) si sono avventurati in nome del popolo italiano nella camera ardente di Palermo. La Repubblica Italiana è morta accompagnata dalle urla dei poliziotti dal disgusto dei magistrati. E’ morta dinnanzi a cinque bare con bandiera tricolore sistemate su trespoli al termine di una guida rossa lisa, sfilacciata qui, sforacchiata là. C’è il cappello blu della polizia sui feretri di Rocco Dicillo, Antonio Molinari, Vito Schifano, il berretto e la toga rossa e nera dei giudici di Stato sulle bare di Francesca Morvillo e di Giovanni Falcone. La Repubblica Italiana a Palermo non è morta di rabbia, non è morta di furore, non è morta di vergogna. E’ morta nell’indifferenza di una città assente fuori dalla camera ardente. E’ morta del disprezzo – un disprezzo cupo, solido, senza speranze – che ha accolto i poveri cristi e le facce di pietra venute a Palermo in nome della Italiana. Era un povero cristo Giovanni Spadolini, presidente della Repubblica supplente quando alle 13,25 ha fatto il suo ingresso nel Palazzo. Nella camera ardente quanta gente c’era? Cinquecento, seicento, forse mille persone. Erano i poliziotti, molte le madri, le mogli, le giovani donne dei poliziotti, c’erano i magistrati, c’era la solita piccolissima Palermo degli onesti. Quella piccolissima Palermo che ha cominciato nel 1979 ad andare ai funerali. E Giuliano e Costa e Terranova e Mattarella e Basile e Chinnici e La Torre e Dalla Chiesa e D’Aleo. Dodici anni dopo è sempre la stessa. Con qualche capello bianco in più, con accanto un figlio diventato adulto o un figlio diventato padre a sua volta. Con lo stesso dolore nel petto, ma gli occhi definitivamente asciutti. Non più disperata (anche la disperazione a Palermo è un lusso). Questa risicata fetta di città è semplicemente disgustata. Ed è il grido di disgusto che accoglie Spadolini che apre il corteo delle autorità. C’è il ministro della Giustizia, Claudio Martelli, il ministro degli Interni, Vincenzo Scotti. Hanno il volto impietrito e cereo. Sono loro che hanno creduto in Giovanni Falcone, nella sua intelligenza, nella sua capacità di dare corpo ad una nuova strategia giudiziaria e investigativa. Eppure toccano a loro le monetine, le urla, gli spintoni. Alle loro spalle serrano le file il segretario generale del Quirinale Sergio Berlinguer, i sottosegretari agli Interni e alla Giustizia, il capo della Polizia, i comandanti dei Carabinieri e della Guardia di Finanza, il capo dei Servizi Segreti e il vicepresidente della DC Sergio Mattarella, il vicesegretario del Csm Giovanni Galloni, una Vincenzina Bono Parrino presente chi lo sa perché. E ancora: i consiglieri di Palermo, il sindaco Domenico Lo Vasco, le gerarchie giudiziarie del Palazzo dei veleni di Roma che in Giovanni Falcone hanno visto sempre lo “straniero”, il “nemico” da umiliare, calunniare, sconfiggere. Sono gli uomini che lo costrinsero ad andar via. Per tutti c’è un solo grido: “Assassini”. “Assassini, assassini”, “Mafiosi, mafiosi”, “Complici, complici”. L’urlo sale, si gonfia dell’eco, si abbatte sul volto di Spadolini, Martelli e Scotti come uno schiaffo, come un pugno. Gli agenti della Polizia che in lacrime sono accanto alle bare dei propri tre compagni ondeggiano. C’è chi grida “mafioso” verso il corteo grigio. C’è chi urla: “Andate via, via di qui. Sono i nostri morti. Andate via di qui. Tornate a Roma, tornate alle vostre tangenti”. C’è un ragazzone del servizio scorte che insegue Galloni per aggredirlo. Gli grida sulla faccia: “Assassino”. Lo trascinano via. Un gruppo di poliziotti fende a gomitate la folla travolgendo ogni cosa. Si impossessano di una, due bare. Si sente dire: “Andiamo via, portiamoci i nostri morti in Questura. E’ il parapiglia. Il feretro di Rocco Dicillo fra le facce livide, gli occhi gonfi di lacrime. “Assassini, assassini”, “Vergogna”. La scorta del Quirinale si stringe attorno a Spadolini. Lascia scoperti, senza difesa Martelli e Scotti. Stretti l’uno contro l’altro, dinanzi alla bara di Giovanni Falcone, i due ministri non si difendono, si lasciano trascinare, strattonare, insultare. Non hanno la forza di reagire. Martelli ha le mani sulla bara di Falcone e così resta fino a quando lo portano via di peso. Giovanni Spadolini si avvicina a Rosaria Schifano. Rosaria ha ventisei anni, una piccola di quattro mesi, è la moglie di Vito. In ospedale ha voluto vedere il corpo del suo uomo. L’hanno implorata di non farlo. Ha risposto: “Voglio dirgli per l’ultima volta: ti amerò per sempre”. E lo ha fatto. Ora quel corpo giovane squarciato e dilaniato è la sua ossessione. Ripete: “Era così bello, le sue gambe erano così belle. Come me lo hanno ridotto, Vito mio”. Quando Spadolini le si fa accanto e le accarezza il volto, Rosaria smette di piangere e di invocare. Guarda quell’uomo che l’accarezza e la rincuora senza riconoscerlo. Le dicono che è il presidente. Chi sa se Rosaria comprende chi è il presidente della Repubblica. Scaccia via i capelli dalla fronte e con un lampo negli occhi dice: “Presidente, io voglio che lei mi dica una parola sola. Lo vendicheremo. Se non può dirmela, presidente, io voglio che non dica nulla, neanche una parola”. Spadolini si guarda intorno smarrito, non trova le parole. Si allontana in silenzio seguito da una scorta scomposta. Dietro di lui si raggruppano il corteo inseguito ancora dalle urla: “Assassini, mafiosi”. Il corteo si schiaccia in un corridoio laterale. In fretta guadagna il primo piano e la salvezza. Sono le 13,55,e la Repubblica Italiana è morta. Non c’è nessuno in quel Palazzo di Giustizia che vuole rappresentarla, che se ne sente figlio. Non sono i poliziotti. Si alternano intorno alle bare di compagni spalla a spalla. Piangono. Dicono: “Siamo inutile carne da macello di una Repubblica senza dignità”. Non si sentono figli della Repubblica, di questa Repubblica, i magistrati. I magistrati, che chiudono sempre gli occhi e voltano sempre lo sguardo, non lo sono mai stati. I magistrati che hanno gli occhi aperti e possono misurare soltanto la loro impotenza volevano esserlo, ma oggi si sentono definitivamente sconfitti. E’ uno di questi che dice: “Non tutti hanno il diritto di piangere Giovanni Falcone e Francesca… Che diritto ho io di illudere la gente che esiste la giustizia, quando quattro gatti come siamo, nemmeno la più ordinaria delle attività riusciamo a garantire. No, questa è la loro Repubblica, queste sono le loro regole…”. Nella sua omelia il Cardinale Pappalardo dice: “… Non sembra essere un attentato restringibile alle dimensioni di Palermo, ma ha per il modo e il momento in cui è avvenuto i connotati ad un attacco allo Stato stesso ed alla civile convivenza nazionale in una sua delicata e difficile congiuntura. Proviene dalle inquinate sorgenti dell’occulto potere, deciso ad eliminare chiunque, in nome della legge, tenti di contrastare l’affermarsi e l’espandersi del suo infame dominio, basato sulla prepotenza e sulla forza del denaro…”. E Lui? “Lui non è morto”, è solo appollaiato sul campanile dal quale domina come da un’altura lo spazio gremito di gente, laddove si aggirano indisturbate le vere vittime del Falcone. Le controlla tutte le “prede di Stato”, vincolate dai suoi artigli implacabili restituiranno un giorno il sangue dei martiri. Ma lui “non è vivo”, poiché il suo cuore ha cessato di battere proprio quando la benda gli fu tolta per la cattura più coraggiosa. Lui oggi “esiste”, e al suo eroe caduto per averlo imitato dedica questo messaggio: “Caro Giovanni, il volo più alto della tua vita non ti ha tradito, ma ha fatto esplodere insieme al tuo corpo la forza di coloro che in futuro pur toccheranno le cime alte della vittoria. Sappi che nessuno più d’ora innanzi benderà il mio e il tuo sguardo, grazie a te è stato riconquistato il diritto di vedere, sempre, in ogni momento, finché non giungerà il giorno propizio in cui il Falcone, ma anche il falconiere riconquisteranno lo spazio ad occhi chiusi, poiché il mondo sarà libero di tane e di nemici”. Un giro di pupille veloce quasi a perlustrare i confini della terra e del cielo e fu subito per lui l’ultimo volo prima di perdersi nel grande Regno della memoria per non essere dimenticato. E Giovanni non alimenta solo i nostri ricordi, egli vuole essere il volto della speranza per coloro che ancora non trovano la forza di ribellarsi al potere, a quel potere che ci fa sopravvivere attraverso la morte dei nostri fratelli. Il sacrificio di Giovanni è un inno alla vita, alla difesa dei nostri valori, è la spada dei nostri figli perché abbiano il coraggio di annientare per sempre gli artefici del male. A te, caro Giovanni, dedichiamo tutti una sola cosa: “Facci conoscere il mondo dei giusti, quel mondo ove tu ora risiedi per sempre, un mondo fatto di niente laddove approda il Falcone con le ali spiegate nel suo ultimo volo”. L’asfalto era ancora rimosso dall’esplosione, quel disastro testimoniava la fine di un’esistenza che aveva cominciato a vivere. All’orizzonte i profili della natura apparivano netti come sempre, quasi a voler dire “non vi illudete, nulla cambierà, nemmeno questa volta…”. Da un’altura pronto a spiccare il volo, ancora lui, il Falcone. Ora li vedeva tutti, uno ad uno, ma nessuno di loro questa volta avrebbe conosciuto prima il momento dell’agguato nel quale sarebbero morti tutti i poteri dello Stato. Allora le campane suoneranno a festa, non più applausi per bare offese dalla presenza delle autorità che non saranno tra i superstiti dell’era nuova. Le nostre lacrime laveranno il sangue degli innocenti perché di loro si possa ricordare l’esempio vivo, fino a ripopolare le strade nel segno di una vittoria annunciata dal volo alto del Falcone.

 

Foto e didascalie:

 

- la copertina del libro "Il volo del Falco" scritto da Gabriella Pasquali Carlizzi

- il tratto autostradale all'altezza dello svincolo di Capaci poco dopo l'esplosione

- il Giudice Giovanni Falcone

- Gabriella Pasquali Carlizzi

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